giovedì 9 novembre 2017

2 - La maledizione del migrante


Segue da:

Siamo sulla stessa barca
1 - Italians in America voglio andare

Se passando per i boschi selvaggi dell'Appennino vi capita di incontrare un africano che corre e a un certo punto sentite nell'aria le distinte note di una struggente canzone calabrese che parla della nostalgia di un emigrante, non vi meravigliate.
Non si tratta di un discendente di Annibale che dopo aver vissuto nel Sud Italia per generazioni cerca di tornare in Africa ripercorrendo all'indietro il tragitto di Annibale attraversando gli Appennini e le Alpi. E' più probabile che sia uno dei rifugiati ospiti a Casa Matti che si tiene in forma con un po' di jogging e la musica che sentite è semplicemente la suoneria che ha scelto per il suo cellulare.
Naturalmente la canzone "emigrante che vieni emigrante che vai" gliel'ho insegnata io perchè avevo bisogno di far ripassare il passato prossimo e l'imperfetto alla prima persona singolare in modo da poter far raccontare ai miei studenti la propria storia in italiano.
"Mamma mia dammi cento lire", la prima canzone che gli ho cantato, era potenzialmente molto più drammatica, la protagonista infatti annega perchè la sua nave affonda e, con la crudezza che solo la tradizione popolare può permettersi, viene descritto il suo corpo mangiato dai pesci, il suo sangue bevuto dalla balena e i suoi capelli che marciscono nell'acqua.
Questa canzone in realtà pare che abbia un'origine molto antecedente al tempo dell'emigrazione italiana in America (che non inizia prima del '800), infatti esistono versioni analoghe intitolate "la maledizione della madre" in cui la figlia decide di sposarsi con il re di Francia (o altro personaggio) e di partire con lui nonostante il divieto della madre e per questo la madre la maledice e lei muore in mare. A differenza della versione più recente, rimaneggiata negli anni '50 ed epurata dagli elementi splatter, che conclude con un moraleggiante "le parole della mamma dicon sempre la verità", la versione originale recita "le parole della mia mamma son venute la verità". In questa versione rimane aperta quindi la possibilità che la profezia della madre si sia avverata oppure che la madre l'abbia "gufata" alla figlia, come direbbe chi crede nella Sfiga e nella possibilità di chiamarla semplicemente nominando possibili ostacoli o problemi (dire a un ragazzo che non studia mai che rischia di essere bocciato è un chiaro esempio di gufatura). Per i miei studenti è stato subito chiaro, mentre tra di loro si aiutavano a tradurre la canzone nelle varie lingue per poterla comprendere meglio, che non si trattava di una maledizione ma di una saggia premonizione materna ("la mamma sapere" ha spiegato qualcuno mettendosi una mano sul cuore per esprimere il concetto di presentimento). In qualche modo chi parte, anche se spinto dalla necessità o dai parenti stessi, si sente in colpa perchè sa di star infrangendo l'antica "norma sociale che sancisce l'unità del gruppo famigliare e il legame con la terra di appartenenza" (Paolo Ferrari in "Dove comincia l'Appenino").
Lo stesso tema viene affrontato nella canzone calabrese "Emigrante che vieni emigrante che vai", ma, naturalmente - trattandosi di un testo del Sud - in modo molto più straziante. Eppure la storia di per sè è molto meno tragica: è narrata in prima persona da un emigrante che trova lavoro in un paese straniero, lasciando in patria la mamma, la moglie e il figlioletto appena nato. Non muore nessuno ed è anche possibile che prima o poi la famiglia possa riunirsi. Una sera però l'emigrante incontra una bella ragazza e se ne innamora. "Stupido!" hanno commentato alcune mie studentesse col bambino legato sulla schiena. A nulla è valso cercare di spiegare loro che lui si sentiva solo e soffriva di nostalgia e dopo tanto tempo senza la sua famiglia... ad ogni modo nella strofa seguente non si parla della sua nuova compagna. Al contrario, la ragazza non viene più nominata, l'uomo continua a raccontare che la notte non riusce a dormire perchè pensa sempre (essere in buona compagnia non è comunque sufficiente) e che sente una voce di bimbo che dice "ritorna papà, stammi vicino". A questo punto della spiegazione ho dovuto fermarmi, perchè la voce mi si rompeva. Per smorzare l'emozione qualcuno mi ha detto "don't cry for me Argentina". 
L'ultima strofa non era però più facile da deglutire: il padre si rivolge al figlio e gli chiede di riferire alla madre che lui li ama tanto e chiede perdono per avergli fatto male, spiegando "la lontananza questo ci fa fare".
Insomma, come qualcuno ha commentato su youtube, sotto al video: sta canzune trase propriu intra lu core mannagia.

Queste canzoni dimostrano che chi migra non è solo oppresso dalla nostalgia, ma è anche tormentato da uno - spesso ingiustificato - senso di colpa, dalla sensazione di aver abbandonato e già solo per questo tradito la famiglia e il paese di origine.
E se il sacrificio del viaggio non ha portato benessere e ricchezza nè tanto meno aiuto alla famiglia, la sensazione di aver sbagliato e fallito è ancora più cocente. Ma il paesaggio interiore non cambia tanto quando invece il progetto migratorio viene realizzato con successo, si trova un lavoro, si mandano i soldi a casa, ci si integra nel nuovo paese: tanto più ci si sente a casa nel posto in cui ormai si vive, e tanto più, ad ogni rientro nella terra d'origine, ci si inizia a sentire stranieri. Questa sensazione di estranietà e di tradimento è la vera maledizione del migrante. Trovare il coraggio di essere felice, per un migrante, può essere una sfida insormontabile.

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